«Nel caratteristico complesso forestale, oggi alquanto ridotto nella sua lunghezza e larghezza, che in passato si snodava, quasi senza interruzioni, sul litorale adriatico da sud del Reno fino ad oltre la città di Cervia, rientravano non solo le pinete di San Vitale e di Classe che, molto rimpicciolite, esistono ancora, ma anche i boschi di Porto e di San Giovanni, da tempo distrutti, ed infine la vecchia, ampia Pineta di Cervia. Quest’ultima quando era integra e vasta non era, come adesso, staccata dalle altre che le stanno a nord, ma continuandone la ininterrotta fascia, costituiva di esse l’ultima propaggine meridionale. Si congiungeva, o quasi, con la pineta di Classe attraverso la pineta di San Giovanni, abbattuta nel 1896, la quale, da chi ancora la ricordava in decenni da poco trascorsi, era descritta come molto bella e assai densa di vegetazione. La pineta di San Giovanni si protendeva a sud del Savio fino al Fosso Via Cupa, e poiché questo piccolo corso d’acqua non poteva costituire in alcun modo una vera e propria divisione, si può dire che veniva addirittura a confondersi con la pineta cerviense vera e propria.»
Così il grande naturalista Pietro Zangheri scriveva in un’interessante – e purtroppo ormai introvabile – guida naturalistica1, composta di poche pagine e da lui stesso definita «a carattere divulgativo e turistico», ma pregevole sintesi di quei lunghi ed accurati studi botanici sulle pinete che sarebbero poi diventati un riferimento per tutti i ricercatori interessati a queste formazioni vegetali. Come si può capire dall’introduzione, la storia delle pinete ravennati – quella di Cervia non fa eccezione – continua ad identificarsi con quella della loro progressiva distruzione. La pineta di Cervia alla metà del 1700 era lunga quasi cinque chilometri e larga in media due. Il Ginanni, nel 17742, ne stimava l’ampiezza in 2600 tornature ravennati, pari a 890 ettari. E nel 1900 cominciò la distruzione: ben 400 ettari caddero sotto la scure e in seguito, durante la prima guerra mondiale, buona parte fu trasformata in terreni coltivati e venduta ai privati. Inoltre, quando fu edificata Milano Marittima, molti pini furono abbattuti per far posto alle strade ed alle prime ville ed alberghi, ma in questo caso, soprattutto, venne interrotta quella continuità con le formazioni litoranee retrodunali – oggi pressoché scomparse da gran parte del litorale nordadriatico – preziose per comprendere la dinamica evolutiva che lega le cenosi3 erbacee pioniere alle formazioni forestali litoranee, ormai del tutto ipotetiche. Per finire, nell’inverno del 1944 circa 40 ettari di pineta furono rasi al suolo con le ruspe per far posto ad una pista d’atterraggio per gli aerei alleati.
Dei quasi 900 ettari oggi ne restano meno di 200, e per di più molto rimaneggiati e disturbati. Nonostante ciò, anche se può sembrare impossibile, la pineta di Cervia conserva luoghi di grande bellezza ed è anche molto interessante dal punto di vista fitogeografico. Come già più volte accennato infatti, le specie vegetali, e meglio ancora la combinazione non casuale di queste, ci possono fornire indicazioni sulle vicende geologiche, climatiche e vegetazionali del passato, ed inoltre ci possono indicare quali siano le tendenze naturali in atto e quali possano essere, quindi, i più corretti interventi di gestione.
La pineta di Cervia si differenzia abbastanza dalle due più settentrionali di Classe e di San Vitale per alcuni aspetti: essa appare innanzitutto più ricca sia di specie termofile sia di quelle delle sabbie litoranee, e poi, nei lembi di querceto che ne rappresentano gli aspetti più maturi e naturali, la quercia prevalente non è più la farnia (Quercus robur) come a Classe e ancora di più a San Vitale, ma la roverella (Quercus pubescens), e talvolta il leccio (Quercus ilex). Di entrambi questi aspetti, assai rilevanti dal punto di vista vegetazionale, possiamo trovare, nella guida dello Zangheri, una spiegazione:
«Giova premettere che delle varie pinete litoranee, dalla San Vitale in giù, la pineta di Cervia fu l’unica che sempre restò (press’a poco) nei luoghi dove ancor oggi si vedono i suoi ultimi residui, e ininterrottamente si spinse fin sulla spiaggia del mare. Anche la San Vitale e la Classense cinsero da vicino la spiaggia in certi periodi, ma rimasero poi (e da lungo tempo) staccate, per lo sviluppo che presero le vaste aree lagunari o vallive fra mare e pinete. Del tutto insignificante fu invece la presenza di specchi d’acqua fra la pineta di Cervia e la linea di battigia. È legittimo pensare che diverso è l’ambiente che ha paludi da ogni lato da quello che risente la diretta azione mitigatrice del mare, ed i riflessi della vegetazione non potevano mancare. I motivi della diversa situazione hanno il loro fondamento più lontano nella storia geologica dei luoghi, quello più recente nelle vicende del grande estuario padano.»
Per comprendere a quali vicende geologiche si riferisca Pietro Zangheri bisogna ricordare che all’inizio del quaternario, quindi in epoca geologica assai recente, buona parte della pianura romagnola, appena formata dagli apporti sedimentari fluviali, sprofondò di nuovo sotto le acque del mare, a partire dai territori a nord di Cesena e fino a Ravenna ed oltre. Tale sommersione non riguardò però il territorio di Cervia, che divenne quindi la propaggine nordorientale di una tozza penisola. Questi territori, rimasti quindi pressoché sempre emersi fin dalla loro formazione, ed in continuità con le vicine rupi calcaree della valle del Marecchia, furono interessati solo marginalmente dalle fresche alluvioni padane che in seguito, invece, avrebbero avuto tanta importanza per la formazione della pianura ravennate ed in generale dei territori più settentrionali.
Questo particolare è della massima importanza e spiega, da un lato, le peculiarità vegetazionali della pineta di Cervia, come ad esempio la pressoché totale mancanza di quegli aspetti dinamicamente collegabili al bosco climax4 con farnia (Quercus robur) ben rappresentati invece nelle pinete di Classe e di San Vitale, dall’altro la notevole ricchezza in questa pineta di specie vegetali termofile5, che non potendo certo beneficiare di un clima molto diverso da quello delle altre pinete, di soli pochi chilometri più settentrionali, devono piuttosto la loro presenza alla continuità con le vicine rupi calcaree dove queste piante hanno trovato rifugio in periodi climatici avversi, per potersi poi diffondere di nuovo nel nostro territorio.
Sempre Zangheri, nel suo libro “Flora e vegetazione delle pinete di Ravenna e dei territori limitrofi fra queste e il mare”6, a conclusione di un’interessante e approfondita analisi sulla diversa origine delle pinete ravennati scrive: «Ho dunque cercato di dimostrare che nel territorio in esame appaiono i segni che in passato vi si affiancavano due formazioni ad esigenze ambientali differenti: la foresta di Quercus peduncolata (= Q. robur) nelle plaghe più umide e paludose della parte meridionale (o ravennate) dell’estuario padano, e la macchia abbastanza ricca di tipici elementi mediterranei più a sud ancora nei terreni asciutti e consolidati, antichi (e per questo anche in parte decalcificati), posti fuori del sistema idrografico e acquitrinoso del Po. Formazioni distinte, più che da altro, dalle condizioni idriche del suolo, ma che certamente interferirono, giacché elementi termofili della seconda (come Asparagus acutifolius, Osyris alba, Clematis flammula, Phillyrea angustifolia, Rubia peregrina, ecc.) s’irradiano in mezzo al querceto. Dominio della prima le selve di San Vitale e di Classe e della seconda le pinete di Classe, di San Giovanni e di Cervia: zone di contatto i settori attorno al romano “Porto di Classe”, cioè la Pineta di Classe».
Le vicende geologiche e le conseguenti differenze edafiche7 dei territori in esame, quindi, pur se alla base di evidenti differenze vegetazionali, non possono tuttavia aver creato dei limiti netti, ove si consideri che ancora nel 1800 un’unica grande pineta si estendeva, senza soluzione di continuità, dal Lamone a sud del Savio. Vorrei ricordare ancora una volta che i fattori climatici, edafici, storici e quindi le opportunità che le varie specie vegetali hanno avuto di giungere o meno in certi luoghi, per quanto importanti, passano in secondo piano se confrontati con le frequenti e sempre più pesanti attività di rimaneggiamento e disturbo antropico. Le possibilità che i popolamenti vegetali avrebbero avuto di insediarsi ed avvicendarsi in questi luoghi, seguendo le naturali tendenze dinamiche, sono state da tempi ormai remoti ostacolate, in modo diretto o indiretto, dall’opera umana. Questo attraverso abbattimenti, incendi, rimboschimenti, subsidenza, inquinamento e altre pesanti modificazioni idrogeologiche. Ciò che resta di naturale è poco, ma nonostante ciò il valore ambientale delle pinete è enorme, per la ricchezza di diversità biologica che ospitano, e di cui sono fatte. E poi, con ottimismo, si può sperare che sull’onda di nuove e sempre più diffuse sensibilità ambientali le cose potranno, per il futuro, migliorare.
La pineta di Cervia è separata dal canale immissario delle Saline in due parti, con evidenti differenze anche nella struttura e nel tipo di vegetazione. Quella più settentrionale, più prossima al mare, conserva talvolta l’aspetto di una boscaglia perilitorale: vi hanno trovato rifugio, costituendovi una specie di relitto, le piante delle dune e delle sabbie aride. In questo tratto di pineta, una fascia larga non più di 400 metri che si estende in direzione N-S fra l’abitato di Milano Marittima ed il campo da golf, si può accedere da vari punti, sia dal viale principale di Milano Marittima, che da sud, in prossimità di un parco giochi. È piuttosto frequentata e percorrendola si ha l’impressione di trovarsi in un ambiente rimaneggiato di cui è difficile cogliere gli aspetti naturali e spontanei. Questi non sono rappresentati dai pini, domestici o marittimi, ma in gran parte dalla componente arbustiva che peraltro, a volte, viene ancora eliminata per favorire i rimboschimenti – con specie non sempre autoctone – e la frequentazione. Una zona particolarmente interessante in questo tratto di pineta è costituita dalle “montagnole”, cosi chiamate dai locali, e cioè quel poco che rimane degli antichi cordoni dunosi consolidati che si trovano nella sua parte sudorientale. Interessanti perché, pur se limitate in estensione, presentano una vegetazione particolare, rappresentativa forse di ciò che si estendeva, per decine di chilometri verso nord, a formare un primo accenno di boscaglia subito a ridosso degli arbusti pionieri retrodunali. Fisionomicamente dominata da grandi e rigogliosi cespugli di ginepro e di leccio, vi abbondano numerose specie termofile quali la fillirea (Phillyrea angustifolia), l’alaterno (Rhamnus alaternus), l’alloro (Laurus nobilis), la robbia (Rubia peregrina), l’asparago pungente (Asparagus acutifolius), il caprifoglio etrusco (Lonicera etrusca), la rosa di San Giovanni (Rosa sempervirens), la ginestrella (Osyris alba), la clematide fiammola (Clematis flammula), il viburno tino (Viburnum tinus). Non che queste presenze siano rare nel resto della pineta, ma qui esse si rinvengono con particolare frequenza, dando luogo a formazioni riconducibili a boscaglie mediterranee di leccio (Quercion ilicis8). Questo aspetto più termofilo del bosco è determinato dalla particolare collocazione: alla sommità di antichi, e ancora piuttosto rilevati, cordoni dunosi. Ai piedi della duna, a soli pochi metri di distanza, una falda freatica prossima alla superficie favorisce altri tipi di vegetazione, come le comunità erbacee retrodunali ed i prati umidi (Holoschoenetalia9), oppure le cenosi arbustive più mesofile, che preludono ai querceti con farnia e roverella. Nonostante la sua limitata estensione questa boscaglia termofila, assai simile per composizione floristica e struttura ai boschi di leccio dell’area mediterranea, è molto interessante in quanto rivelatrice di una tendenza che, se le vicende storiche e le modalità di gestione l’avessero consentito, sarebbe ben più diffusa. Bisogna infatti ricordare che nell’inverno del 1944 circa 40 ettari di pineta, subito a nord del tratto ora considerato, furono spianati con le ruspe per ricavare un aeroporto militare: una ferita larga in media 220 metri e lunga 1700. I segni di tale scempio sono ancora evidenti e anche se in seguito furono effettuati reimpianti di pini (peraltro soprattutto marittimi ed in compagini troppo fitte) l’assetto naturale del luogo, ondulato per la successione di dune, formate nei secoli dall’azione combinata dei fiumi, del mare, del vento e della vegetazione erbacea, è andato perso per sempre. Alla luce di ciò che si trova sulle “montagnole” è possibile pertanto ipotizzare che i querceti termofili con leccio sarebbero oggi ben più rappresentati nella pineta di Cervia, anche perché la tendenza a formare tali compagini sembra manifestarsi qua e là, non appena il substrato si rilevi, anche di poco, rispetto alle zone circostanti.
Un aspetto ben diverso dalla boscaglia di leccio si trova nella parte nordoccidentale della pineta, a ridosso del campo da golf: qui alcune farnie e roverelle (querce caducifoglie molto diffuse in pineta) formano un bosco fresco ed ombroso, favorito dal tipo di suolo in parte argilloso e a diretto contatto con terreni un tempo coltivati. Ancora una volta si tratta di un lembo ridotto in estensione, ma importante in quanto rappresentativo di un tipo di bosco che costituisce l’aspetto più maturo e stabile delle formazioni vegetali costiere. Qui un suolo ricco di sostanza organica in decomposizione favorisce la germinazione di molte plantule di queste querce, ed in parte di arbusti più mesofili di quelli citati in precedenza. Si tratta soprattutto biancospini (Crataegus monogyna), prugnoli (Prunus spinosa), ligustri (Ligustrum vulgare) e aceri campestri (Acer campestre), che in alcuni casi assumono dimensioni e portamento arborei; anche l’edera (Hedera helix), in questi ambienti umidi e freschi, è molto abbondante. Degne di nota poi sono due specie erbacee, poco appariscenti e quindi non facilmente individuabili: si tratta del brachipodio selvatico (Brachypodium sylvaticum), un’elegante graminacea cespitosa dalle foglie mollemente ricadenti, e dell’erba perla azzurra (Buglossoides purpurocaerulea), una borraginacea dai fiori di un bellissimo colore azzurro violaceo. L’importanza di queste due ultime specie discende dalla loro spiccata preferenza per il sottobosco del querceto, tanto da divenirne indicatrici. Anche quando gli interventi gestionali abbiano stravolto l’assetto e la struttura originarie del bosco, la presenza di queste ed altre essenze erbacee indicatrici ci testimonia quale sia la tendenza naturale e che cosa possiamo attenderci per il futuro, una volta che le ferite inferte dall’uomo saranno rimarginate.
Altrove – per la verità in gran parte della pineta – le cose sono meno chiaramente definite. Le due situazioni ora descritte, e cioè la boscaglia con leccio ed altre piante termofile ed il querceto più maturo ed ombroso, possono essere considerate quali casi limite. Osservando la composizione e la struttura di buona parte della pineta si ha spesso l’impressione che i diversi aspetti possano essere assimilati ora all’una ora all’altra di queste due situazioni, ma quasi sempre elementi di disturbo rendono problematico un preciso inquadramento vegetazionale. È il caso delle zone periodicamente disturbate, decespugliate e rimboschite solamente con pini, nelle quali la componente naturale è costituita esclusivamente da erbe e arbusti. Queste cenosi potranno evolvere verso formazioni più stabili e definite, ad esempio i querceti caducifogli, nel volgere anche di pochi anni, se non saranno più soggette a continuo rimaneggiamento. Numerose querce (per lo più roverelle) vi si trovano infatti come plantule o allo stato arbustivo. La composizione specifica di questi arbusteti può variare anche molto, in dipendenza di diversi fattori, per lo più edafici. Nella fascia di pineta più prossima al mare, con suoli sabbiosi meno maturi, è ad esempio molto elevata le presenza del ginepro (Juniperus communis), tipico arbusto pioniero delle zone retrodunali, che si accompagna alla fillirea a foglie sottili (Phillyrea angustifolia), all’agazzino (Pyracantha coccinea) e all’olivello spinoso (Hippophae rhamnoides).
Aspetti ancora interessanti della pineta di Cervia sono le spazzate erbose, così definite da Zangheri, e cioè le radure prive di vegetazione arbustiva, ricche di quelle specie per lo più annuali che un tempo crescevano abbondanti in prossimità delle dune litoranee. Interessanti perché molte di queste specie, spesso dotate di caratteristici adattamenti agli ambienti aridi ed assolati, sono ora poco frequenti, e devono la loro possibilità di sopravvivenza proprio agli ambienti caratterizzati da periodico sfalcio. Queste piante formano caratteristici consorzi, sempre molto interessanti per l’elevato numero di specie psammofile10 altrove rare, quali gli eliantemi (Helianthemum nummularium, H. apenninum), la fumana (Fumana procumbens), e le numerose specie di orchidee selvatiche (Orchis simia, O. anthropophora, Neotinea tridentata, Anacamptys pyramidalis, Neottia ovata, Cephalanthera rubra, C. longifolia, Himantoglossum adriaticum, Limodorum abortivum, Serapias vomeracea, Ophrys apifera, O. bertolonii, O. sphegodes, O. insectifera, O. fuciflora, e altre). Nelle spazzate erbose compare a volte anche Chrysopogon gryllus, una bella graminacea dalle infiorescenze dorate e flessuose nota localmente come “erba da spazzole” o col nome dialettale di “busmarôla”, a volte associata al giunchetto nero (Schoenus nigricans). Una vera e propria rarità, almeno per quanto riguarda il territorio nazionale, è la presenza nella nostra pineta dell’apocino veneto (Trachomitum venetum), un piccolo arbusto dai fiori rosati il cui sterminato areale eurasiatico trova sui nostri litorali nordadriatici i suoi limiti occidentali. Nella Pineta di Cervia questa specie, per lo più diffusa sui litorali veneti, raggiunge il limite meridionale di distribuzione nella nostra penisola11. Se ne possono ancora rinvenire alcuni esemplari nella parte nord della pineta di Cervia, sui suoli sabbiosi che corrispondono ad antichi cordoni dunosi litoranei, ormai in gran parte spianati per cause naturali ed antropiche.
La Pineta di Cervia presenta dunque molti aspetti interessanti dal punto di vista naturalistico, nonostante si possa considerare, in un certo senso, una formazione artificiale: i pini, sia marittimi sia domestici, vi sono stati piantati da tempi ormai remoti, ma si tratta in realtà di specie al di fuori del loro areale di spontanea diffusione, più meridionale. La loro estraneità fitogeografica non di rado si è manifestata, con cadute e schianto di rami conseguenti ad abbondanti nevicate, attacchi parassitari, crescita stentata. Ma i pini sono molto amati dalla popolazione, non solo da quella locale, e hanno contribuito negli anni a rendere famose le nostre località balneari. Per questo motivo il loro utilizzo nei rimboschimenti non viene neppure messo in discussione. Per limitare i danni futuri e compensare il più possibile la loro estraneità fitogeografica, bisognerebbe però piantarli nelle zone giuste, chiaramente indicate dalla vegetazione spontanea e dal tipo di suolo presente, ma non sempre questi accorgimenti vengono osservati. Altri errori gestionali, ben più deleteri, sono rappresentati dalle drastiche ‘ripuliture’ del sottobosco, come ad esempio è stato fatto anche in tempi recenti lungo via Stazzone e lungo i sentieri principali della pineta. La completa eliminazione delle componenti arbustiva ed erbacea, che peraltro costituirebbero la componente spontanea della pineta, oltre a distruggere buona parte della biodiversità presente, finisce per favorire negli anni successivi l’espansione delle specie invasive a più rapida crescita, come i rovi e la robinia, che magari proprio con quei decespugliamenti si volevano contrastare. A questi errori si sommano poi l’impianto di arbusti esotici (es. Berberis sp.) o il rimboschimento con pini in compagini regolari che fanno assomigliare la pineta più ad un vivaio che ad un ambiente naturale.
Vorremmo ricordare agli amministratori locali, responsabili degli interventi, che la Pineta di Cervia è soggetta a vincoli naturalistici che discendono sia dalla sua inclusione nel Parco del Delta del Po (Stazione Pineta di Classe e Saline di Cervia) sia dall’istituzione del SIC Pineta di Cervia (IT 4070008) e che tali vincoli comportano l’obbligo di una gestione ispirata a criteri naturalistici, che non consentono ad esempio di effettuare al suo interno interventi di giardinaggio. Vorremmo inoltre ricordare che un bosco, come ogni ambiente naturale, non è un semplice insieme di organismi, ma è piuttosto un insieme di «relazioni» fra organismi, e che queste relazioni, stabilitesi in tempi generalmente lunghi, sono l’unica garanzia di resilienza e di stabilità nel tempo. La Pineta di Cervia racchiude ancora, nonostante tutto, un grande patrimonio di biodiversità e di informazioni fitogeografiche ed ecologiche, e andrebbe gestita e preservata nel migliore dei modi.
Nicola Merloni
Note
1 Zangheri P., 1969 – La Pineta di Cervia. A. Forni Editore, Bologna.
2 Ginanni F., 1774 – Istoria civile e naturale delle Pinete Ravennati. Salomoni, Roma.
3 Cenosi è un termine utilizzato in ecologia per definire comunità caratteristiche di specie viventi, in questo caso vegetali; è sinonimo di ‘comunità’.
4 Per bosco climax si intende la formazione forestale matura e stabile che si insedia in un luogo al termine di una successione vegetazionale, cioè al termine di quel naturale susseguirsi di formazioni vegetali spontanee che dopo le comunità erbacee, arbustive e forestali, culminano appunto con un bosco maturo che non cambia più le sue caratteristiche nel tempo. Per l’intera pianura padana il bosco climax sarebbe un querco-carpineto, cioè un querceto con farnia e carpini bianchi prevalenti.
5 Specie vegetali che amano il caldo; tipicamente, nelle nostre zone, quelle cosiddette ‘mediterranee’.
6 Zangheri P., 1936 – Romagna fitogeografica (1°). Flora e vegetazione delle Pinete di Ravenna e dei territori limitrofi fra queste e il mare, pp. 422, Valbonesi, Forlì.
7 Edafico è un termine usato in ecologia per definire le condizioni fisiche e chimiche del suolo.
8 Quercion ilicis è il nome di una categoria fitosociologica, cioè di un tipo di vegetazione caratteristico che chi studia la vegetazione utilizza per definire una determinata situazione vegetazionale; in questo caso vengono descritte con questo nome le formazioni della macchia mediterranea: comunità vegetali sempreverdi, per lo più arbustive, diffuse nelle coste più calde del Mediterraneo.
9 Holoschoenetalia è una categoria fitosociologica che comprende le formazioni erbacee costiere igrofile soggette a periodiche sommersioni nei periodi dell’anno più piovosi, e talvolta interessate anche da ingressioni o infiltrazioni di acque debolmente salmastre.
10 specie vegetali che crescono spontaneamente sui suoli sabbiosi.
11 Merloni N., 1986 – L’Apocino veneto nel Ravennate. Natura e Montagna, anno XIII, 1, pp. 43-49. Bologna.